«Oggi è sabato, domani non si va a scuola», recitava un famoso brano degli anni Novanta, che noi, studenti nei primi anni 2000, cantavamo a squarciagola per i corridoi del liceo non appena suonava l’ultima campanella della settimana. Oggi, vent’anni dopo, mi tocca intonare lo stesso ritornello ma alla rovescia: «Oggi è sabato, domani si torna a scuola». Sì, perché è dello scorso sabato la comunicazione con cui il dirigente della scuola dove insegno informa i docenti e le famiglie che da lunedì si torna in classe, con una frequenza tra il settanta e il cento per cento (in pratica, ogni classe va a scuola due settimane su tre). «Finalmente!», esulteranno i più ottimisti fra di voi e, in particolare, quelli che non ricordano come è fatta un’aula di liceo. Fra presunti articoli scientifici che sostengono che a scuola non vi è più pericolo che altrove, insegnanti ingenui ed entusiasti e, presumo, interessi politici che spingono per una riapertura all’ultimo minuto, vorrei almeno descrivere la situazione così come si presenta da dietro la cattedra, agli occhi di un docente. 22 ragazzi (quando va bene) con i banchi tra loro distanti una quindicina di centimetri e un professore, a mezzo metro dalla prima fila, spesso obbligato a condividere la cattedra con un secondo professore (sia esso docente compresente o di sostegno). A questo dato di fatto, bisogna aggiungere l’evidenza scientifica che i positivi che hanno meno di vent’anni sono quasi sempre asintomatici e la (dura a morire) abitudine degli studenti di far scivolare la mascherina sotto al naso. La realtà è che per non fare anche l’ultimo mese (di questo tormentato anno scolastico: sigh!) in Dad, si mettono a rischio migliaia di docenti non ancora vaccinati e milioni di famiglie. «Oggi è sabato, se ci penso ho un nodo in goolaaa».
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